Dimissioni subcommissario Papa, Iacovino: o l’ Agenas è fuori legge o le strutture private hanno lucrato sul fondo sanitario a danno del pubblico

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di Vincenzo Iacovino

La legge non è mai stata applicata nel Molise e tanto meno in sanità!

I privati piano piano si sono sostituiti al pubblico che nel frattempo ha chiuso reparti e ospedali per mano del politicante di turno e della dirigenza serva e supina al volere politico e delle lobby.

Questo è stato possibile garantendo loro il
massimo delle entrate possibili chiudendo occhi, orecchie e bocche ma scrivendo e sottoscrivendo contratti d’oro e pagamenti non sempre dovuti.

Già il commissario Giustini aveva avuto l’imput dai tavoli tecnici di introdurre tetti di spesa alle prestazioni ospedaliere, specialistiche e salvavita nonché all’extrabudget.

Il Tar Molise, adito dai soliti noti, ha sospeso i provvedimenti per un vizio procedurale e piu’ precisamente per il mancato avvio del procedimento agli interessati. I giudici hanno però’ sottolineando, nel contempo, la necessità del tetto di spesa. Principio ribadito dal Consiglio di Stato.

Ora il Presidente della Regione e Commissario al piano di rientro dal debito sanitario, per evitare responsabilità politiche, ha fatto si che a dettare la linea giuridica e politica sul tema sia stata l’AGENAS, organismo istituzionale di consulenza sanitaria. Tramite la citata agenzia, oggi il commissario impone i tetti di spesa secondo legge. E i privati insorgono vedendosi vidi limitare spazi operativi e affari.

Ora due sono le ipotesi: o l’agenas e fuori legge o le strutture private hanno abusato lucrando nel tempo sul fondo sanitario riducendo al lumicino le risorse finanziarie destinate al pubblico.

La legge è chiara e solo chi non la vuole applicare può dire che il privato oggi e’ penalizzato.

In verità questi signori sono dei privilegiati che hanno goduto di ogni facoltà non sempre previste dalla legge.

Il problema e’ coniugare il principio di libertà dell’utente, con il principio della necessaria programmazione di settore.

Premessa di fondo è che il diritto alla salute, nella sua dimensione di diritto sociale e, in particolare, di diritto a prestazione, si configura come diritto finanziariamente condizionato perché: a) il costo delle prestazioni è posto a carico dell’erario pubblico; b) le risorse, per la loro limitatezza, sono insufficienti a far fronte alla domanda di cure da parte degli assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Di qui, l’esigenza avvertita in modo sempre più pressante soprattutto in un momento di congiuntura economica sfavorevole, di adottare politiche di razionalizzazione e contenimento della spesa.

l principio di parificazione e di concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private deve conciliarsi con il principio di programmazione, che persegue lo scopo di assicurare la razionalizzazione del sistema sanitario nell’interesse al contenimento della spesa pubblica»

Nella doverosa ricerca di un giusto punto di equilibrio fra le esigenze sopra evidenziate si deve evidenziare come le regioni godano di «un ampio potere discrezionale, chiamato a bilanciare interessi diversi, ossia l’interesse pubblico al contenimento della spesa, il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, le legittime aspettative degli operatori privati che ispirano le loro condotte ad una logica imprenditoriale e l’assicurazione dell’efficienza delle strutture pubbliche che costituiscono un pilastro del sistema sanitario universalistico».

Dopo l’enunciazione da parte delle legislazione sanitaria del principio della parificazione e concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private, con la conseguente facoltà di libera scelta da parte dell’assistito, si è progressivamente imposto nella legislazione sanitaria il principio della programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della spesa pubblica ed una razionalizzazione del sistema sanitario. In questo modo si è temperato il predetto regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione propri delle Regioni e la stipula di appositi “accordi contrattuali” tra le USL competenti e le strutture interessate per la definizione di obiettivi, volume massimo e corrispettivo delle prestazioni erogabili.

La determinazione dei tetti di spesa, in particolare, è espressione del potere di programmazione della Regione caratterizzato da ampia discrezionalità nella previsione del dimensionamento e dei meccanismi di attribuzione delle risorse disponibili, con l’obiettivo di bilanciare molteplici e spesso contrapposti interessi di rilevanza anche costituzionale, come il contenimento della spesa in base alle risorse concretamente disponibili, l’esigenza di assicurare prestazioni sanitarie quantitativamente e qualitativamente adeguate agli assistiti, quelli delle strutture private operanti secondo logiche imprenditoriali, quelli delle strutture pubbliche vincolate all’erogazione del servizio nell’osservanza dei principi di efficienza e buon andamento (Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2018, n. 6427; id. 4 luglio 2017, n. 3274).

La giurisprudenza amministrativa ricorda che l’art. 8 quinquies, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 non consente la remunerazione delle prestazioni che eccedono il tetto di spesa, in quanto la funzionalità del sistema di programmazione della spesa sanitaria presuppone il rispetto dei limiti di spesa stabiliti.

La Corte di Cassazione, sez. III, 6 luglio 2020, n. 13884 in tema di prestazioni extra budget, ha affermato che l’art. 8-sexies, comma 1, d d.lgs. n. 502 del 1992, dispone che le “strutture che erogano assistenza ospedaliera e ambulatoriale a carico del Servizio sanitario nazionale sono finanziate secondo un ammontare globale predefinito indicato negli accordi contrattuali di cui all’art. 8-quinquies e determinato in base alle funzioni assistenziali e alle attività svolte nell’ambito e per conto della rete dei servizi di riferimento”, mentre il precedente articolo, al comma 1, lett. d), prevede che le Regioni stabiliscano i “criteri per la determinazione della remunerazione delle strutture ove queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, tenuto conto del volume complessivo di attività e del concorso allo stesso da parte di ciascuna struttura”.
Secondo la Corte di Cassazione tanto “la fissazione del tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario, per singola istituzione o per gruppi di istituzioni”, quanto “la determinazione dei preventivi annuali delle prestazioni”, risulta “rimessa ad un atto autoritativo e vincolante di programmazione regionale, e non già ad una fase concordata e convenzionale”, visto che “tale attività di programmazione, tesa a garantire la corretta gestione delle risorse disponibili, assume valenza imprescindibile in quanto la fissazione dei limiti di spesa rappresenta l’adempimento di un preciso ed ineludibile obbligo che influisce sulla possibilità stessa di attingere le risorse necessarie per la remunerazione delle prestazioni erogate” (Cass. civ., sez. III, n. 27997 del 2019, che richiama Cons. St., Ad. Plen., 12 aprile 2012, n. 3). In altri termini, “l’osservanza del tetto di spesa in materia sanitaria rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il Servizio sanitario nazionale può erogare e che può permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato”, di talchè si è ritenuta persino “giustificata (anche) la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extra budget”, e ciò in ragione della “necessità di dover comunque rispettare i tetti di spesa e, quindi, il vincolo delle risorse disponibili” (così, in motivazione, Cass. civ., sez. III, n. 27608 del 2019, cit., la quale richiama Cons. St., sez. III,. 10 febbraio 2016, n. 566; id. 10 aprile 2015, n. 1832).
Una conclusione, questa, che si è ritenuto essere confortata dalle stesse norme vigenti in materia (art. 32, comma 8, l. 27 dicembre 1997, n. 449; art. 12, comma 3, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502; art. 39, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446), le quali “hanno disposto che, in condizioni di scarsità di risorse e di necessario risanamento del bilancio, anche il sistema sanitario non può prescindere dall’esigenza di perseguire obiettivi di razionalizzazione finalizzati al raggiungimento di una situazione di equilibrio finanziario attraverso la programmazione e pianificazione autoritativa e vincolante dei limiti di spesa dei vari soggetti operanti nel sistema” (Cass. civ., sez. III, n. 27608 del 2019, cit.).

Quello, infatti, che viene in rilievo in tale ambito è “un potere connotato da ampi margini di discrezionalità, posto che deve bilanciare interessi diversi e per certi versi contrapposti, ovvero l’interesse pubblico al contenimento della spesa, il diritto degli assistiti alla fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, le aspettative degli operatori privati che si muovono secondo una legittima logica imprenditoriale e l’assicurazione della massima efficienza delle strutture pubbliche che garantiscono l’assistenza sanitaria a tutta la popolazione secondo i caratteri tipici di un sistema universalistico”. Il tutto, però, sempre nella prospettiva “che il perseguimento degli interessi collettivi e pubblici compresenti nella materia” non resti “subordinato e condizionato agli interessi privati i quali, per quanto meritevoli di tutela, risultano cedevoli e recessivi rispetto a quelli pubblici” (Cass. civ., sez. III, n. 27608 del 2019, cit.), giacché, in definitiva, gli “operatori privati restano liberi di valutare la convenienza a continuare ad operare in regime di accreditamento accettando le limitazioni imposte, oppure di collocarsi al di fuori del servizio sanitario nazionale e continuare ad operare privatamente” (Corte cost. 26 maggio 2005, n. 200)”.